EQUILIBRIO BIONOMICO E TRAINING AUTOGENO

training-autogenoEQUILIBRIO BIONOMICO E TRAINING AUTOGENO

Roberto Baruzzo

Parole chiave: autogenia, bionomia, equilibrio, suggestione, training autogeno

L’osservazione del corpo umano offre un’idea chiara del concetto di equilibrio. La stazione eretta, pur essendo una posizione di relativo riposo, è garantita  da continue contrazioni muscolari che, contrastando la forza di gravità, la mantengono in essere.

L’equilibrio somatico è una funzione complessa alla quale partecipano numerosi sistemi di ricezione e trasmissione. I recettori visivi forniscono dati riguardo all’ambiente che ci circonda; gli esterorecettori dicono in quale direzione stiamo oscillando; i recettori vestibolari vengono costantemente sollecitati dallo spostamento del liquido interno (endolinfa) presente nell’orecchio; i propriocettori aggiornano continuamente il cervello sulla posizione delle diverse parti del corpo.

Tutti questi messaggi vengono elaborati dalla corteccia cerebrale che realizza così l’esatta percezione del  nostro corpo rispetto allo spazio e risponde inviando ai muscoli le indicazioni per apportare gli eventuali necessari cambiamenti per mantenere, appunto, l’equilibrio, evitando così al corpo di trovarsi in situazioni pericolose per l’incolumità del soggetto.

Anche sul piano psichico avviene qualcosa di simile: gli stimoli esterni, gli avvenimenti della vita, l’influsso degli altri, ma anche i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri desideri, i nostri obiettivi, i nostri sistemi di significato devono essere costantemente vagliati ed elaborati consapevolmente per evitare di trovarsi in una condizione di conflitto intrapsichico, con effetti negativi sull’equilibrio interiore.

Sia i meccanismi fisiologici sia le dinamiche psichiche hanno in sé la possibilità di svolgere la loro funzione in modo naturale, equilibrato, salvo anomalie, errori, traumi.

Lo sviluppo della ricerca psicologica può essere interpretato come la progressiva elaborazione di teorie, e conseguenti metodi e tecniche di intervento, che hanno cercato di spiegare e definire la complessità dell’equilibrio psichico, a partire da angolazioni diverse, accentuando taluni meccanismi, evidenziando rischi ma anche possibilità di autoregolazione e guarigione.

 Al riguardo possono essere ricordate le opere di alcuni autori che hanno posto al centro della loro riflessione il tema della sviluppo della persona sana: Carl R. Rogers e lo sviluppo del “Sé”, Eric Berne e la formazione dell’”Io adulto”, Abraham H. Maslow e la realizzazione delle potenzialità nelle “peak experiences”, Roberto Assagioli e l’unificazione psicosintetica della personalità, Robert R. Carkhuff e lo sviluppo della responsabilità, Victor E. Frankl e la ricerca di significato esistenziale, Max Lüscher e la struttura autoregolativa della personalità.

Molte persone all’inizio di un percorso di psicoterapia o di counseling manifestano il desiderio di ri-trovare uno stato di equilibrio, di tranquillità, di benessere psichico, di armonia interiore, che eventi esterni o problematiche intrapsichiche hanno reso difficile.

Questa richiesta deriva prevalentemente dalla consapevolezza che qualche fattore, conscio o inconscio, abbia causato uno squilibrio nello sviluppo personale tanto da causare una reazione di allarme prolungato che si manifesta con angoscia, ansia patologica, depressione ed altri stati d’animo negativi.

Di fronte ai traumi od agli eventi vissuti come tali nel corso dell’esistenza di un individuo, le ricerche di Hans Selye hanno dimostrato che, quando il grado di sollecitazione è eccessivo e lo stato di allarme dura troppo, l’organismo perviene ad uno “stadio di esaurimento” che può portare alla malattia. Secondo Selye ogni persona dispone di una determinata riserva di energia vitale: se essa viene consumata troppo rapidamente, senza un adeguato ripristino, le conseguenze possono portare ad uno squilibrio patologico (Selye, 1957).

Luban-Plozza ritiene che il significato psicosomatico della malattia o del disturbo sia riconducibile a una “non funzionalità”. Si creerebbe un circolo vizioso sostanzialmente semplice: la tensione determina una non funzionalità e questa, a sua volta, aumenta la tensione, e così via. In pratica ci si trova di fronte a un binomio: tensione-non funzionalità, che mette in crisi le tre componenti dell’individuo, e cioè i dispositivi di comando (lo schema corporeo, i sistemi percettivi, gli schemi motori e funzionali, la volontà e la capacità di agire), l’energia (lo psichismo, la fantasia, la capacità di riconoscere ed elaborare i propri vissuti, la capacità di mettere in atto risposte idonee) e la materia (l’attività fisica, il movimento, la funzionalità organica ai vari livelli). Nella malattia il paziente non è libero di attivarsi a nessun livello e questa impressione è il limite che lo blocca in tutte le direzioni, ma soprattutto nei confronti della fiducia in se stesso, cioè della sua capacità di operare per autoregolarsi e quindi essere nuovamente attivo e creativo (Luban-Plozza, 1992).

Per non cadere nella malattia questa persona può cercare di ritrovare il proprio equilibrio con strategie di vario genere: può scegliere la de-connessione (dedicandosi ad attività che allontanino l’attenzione dalla problematica), anche se talvolta questa modalità assume le caratteristiche di fuga dal problema; può cercare di controllare la situazione mediante tecniche di tipo cognitivo attenuando la risonanza emotiva; oppure può mettere in atto dei cambiamenti nel proprio sistema di vita o nei propri atteggiamenti interiori eliminando la fonte di stress negativo; può inoltre praticare la “commutazione da concentrazione psichica passiva” che produce  “un abbassamento generale del biotono dello stato di veglia” utilizzando il Training autogeno (Schultz, 1993), consentendo al proprio organismo di recuperare l’equilibrio originario, rientrando così nella bionomia, cioè nell’ordine della vita.

Rompere il binomio tensione-non funzionalità significa stimolare le componenti positive del soggetto, operare una rivalutazione delle capacità personali, ridare fiducia in se stesso, tornare ad essere in grado di autoregolarsi.

A volte la persona, per diverse ragioni, può non essere in grado di difendersi, di ritrovare il proprio equilibrio naturale o almeno ritenere di non poterlo fare da sola: per questo chiede aiuto.

Una relazione “terapeutica” efficace permette di riordinare bionomicamente (cioè secondo le leggi e il senso della vita) le esperienze che hanno favorito orientamenti e scelte  esistenziali in contrasto con le leggi vitali, consentendo così all’individuo di ricondurre la propria esistenza nel rispetto bionomico. Nell’ambito di un percorso di Psicoterapia Autogena si manifesta la possibilità di riequilibrare le funzioni alterate anche da tempo e contemporaneamente di esplorare le strutture inconsce della personalità per riarmonizzarle e consentire così di raggiungere livelli superiori di realizzazione di sé.

Questo è possibile perché, secondo il principio dell’”autogenia”, le indicazioni e le possibilità di equilibrio interiore sono già presenti in ciascuno di noi fin dall’origine, esistono già nel “programma” di ogni persona, nella propria e unica personalità, e proprio seguendo questo “programma” si perseguono le migliori possibilità di modellare la propria vita in modo ottimale: “Il nostro organismo possiede sistemi, meccanismi e principi regolatori i quali agiscono automaticamente senza il concorso della nostra volontà. … Si tratta quindi di sostenere e rafforzare la naturale tendenza del nostro organismo all’autoregolazione multifunzionale” (Peresson, 1990).

L’autogenia si fonda su una visione bionomica della vita e della persona. Troviamo efficacemente e ampiamente spiegato il concetto di “bionomia” nell’opera di Schultz del 1951 (Psicoterapia bionomica), tradotta in Italia solo nel 2001.

Avvalendosi delle ricerche in biologia fatte da Karl Eduard Rothschuh, pubblicate a Berlino nel 1936, e riprendendo un termine precedentemente coniato da un sociologo e botanico americano, Lester Frank Ward (1841-1913), Schultz fa proprio il termine di “bionomia” definito come “ordine del complesso di leggi della vita”.

Ci sono diverse forme di ordine nel mondo, come ad esempio nell’ambito inorganico l’ordine funzionale o causale, senza una definizione della mèta, studiato prevalentemente dalla biologia; altro esempio è l’ordine psichico prospettivo, caratterizzato dalla determinazione di un obiettivo, di uno scopo. Tuttavia l’ordine vivente non è riconducibile ad una di queste due forme di ordine. In ciò che è organico infatti si compenetrano entrambi queste forme di ordine diverso in stretta connessione reciproca: l’ordine biologico e l’ordine psichico. L’insieme di questo complesso di leggi vitali viene definito “bionomia”.

Rothschuh afferma che “il sistema di leggi di ciò che è organico è qualcosa di primario, dunque una qualità originaria dell’evento. Essa non è riconducibile che a se stessa. È un’ultima qualità dell’ordine dell’esistente, un fenomeno primordiale.” “L’ordine in ciò che vive è presente fin dall’inizio” (citato in Schultz, 2001).

Offrire la possibilità all’organismo nella sua interezza (psiche-soma) di seguire e sviluppare l’insieme delle leggi della vita consente all’individuo di svilupparsi in equilibrio, in armonia con se stesso e con la realtà circostante. In questo modo si riconosce e si valorizza la “saggezza del corpo” che si fonda sulla capacità dell’organismo di governarsi, regolarsi, essere autonomo.

Nell’essere umano, a differenza e in misura maggiore che negli altri esseri viventi, l’ordine e il senso, il significato, il compito, il valore sono in continuo legame con la corporeità; altrimenti gli eventi vitali si disgregherebbero in singoli elementi senza contesto.

Questo collegamento fa parte della vita, è cioè bionomico. Sul piano della ricerca scientifica ciò significa che “la biologia senza lo psichismo è incompleta, la medicina senza lo psichismo è un rudimento. Questa conoscenza è antica.”

Infatti già Ippocrate di Cos (460-370 a. C.) aveva affermato che il medico deve saper guardare non solo ai sintomi fisici ma anche alle condizioni di vita della persona, all’ambiente, al contesto sociale. In tal modo la cura dovrà comprendere tutti questi aspetti. La medicina, secondo Ippocrate, si situava all’interno di un corretto rapporto fra esperienza e ragione: ogni squilibrio in un senso o nell’altro, ogni deviazione da questo cammino l’avrebbe fatta degenerare. La sua dottrina eziologica fondamentale sosteneva che il rapporto fra l’uomo e l’ambiente è il principale fattore patologico, qualora non sia equilibrato. Di conseguenza le indicazioni terapeutiche privilegiavano non i farmaci, ma una terapia paziente e complessiva dell’organismo ammalato (Veggetti, 1976).

Per Schultz “la psicoterapia richiede un confronto con il paziente vivo nella sua interezza, con tutte le sue relazioni vitali, non meno che con i suoi atteggiamenti mentali”, superando i pregiudizi e le arroganze di una “tendenza psicoterapeutica superata” che nello studio della personalità umana riconosceva “solamente l’effetto di pulsioni primitive, soprattutto di tipo istintivo, soffocate e rimosse”, pur riconoscendo che tale prospettiva (e cita espressamente Freud) “in un ambito circoscritto di fatti, ha prodotto scoperte indispensabili”.

La visione bionomica della persona e della sua evoluzione, attraverso le fasi di nascita, sviluppo, mantenimento, riproduzione e morte, spinge Schultz ad affermare la necessità che la teoria e la ricerca scientifica cerchino di “mostrare ovunque i ponti sui quali conseguire una sintetica visione globale dell’essere vivente come unità psicofisica”.

In questo senso la psicoterapia, o il counseling per certi ambiti, diventa un lavoro di guarigione medico-psichica, “una commutazione funzionale del sistema nervoso centrale”, verso un obiettivo preciso: un vivere sano, pieno, conforme al senso dell’organismo e dell’esistenza, che assume una potenza creativa in una visione bionomica.

Schultz ha dimostrato che la psicoterapia autogena, cioè una psicoterapia fondata sulla teoria bionomica e che utilizza le tecniche basate sul Training autogeno, è un valido strumento per aiutare i pazienti a ri-trovare il proprio equilibrio e a ri-armonizzare i circoli vitali.

Tuttavia anche per chi non è ammalato, “la salute non è uno stato acquisito una volta per tutte, ma deve essere costantemente riconquistata e salvaguardata. Il Training autogeno offre una buona possibilità a tal fine, e rappresenta un mezzo di prevenzione quasi imbattibile per la protezione dell’equilibrio psicologico” (Lindemann, 2003).

Numerose ricerche hanno prestato attenzione al concetto di “autogenia”, riflettendo particolarmente sulla “concentrazione passiva” e sul ruolo del terapeuta. È un tema centrale soprattutto in riferimento alla questione della ricerca dell’equilibrio personale. È qualcosa che si genera da sé o che ha bisogno di essere guidato per chi da solo non è più in grado di recuperarlo?

Rispetto all’allenamento autogeno Schultz pretendeva “il silenzio completo del medico finchè il paziente, od un altro soggetto, si esercita” (Wallnöfer, 1989), anche se, parlando in modo particolare della ripresa al termine dell’allenamento e delle sedute di gruppo, riconosceva la necessità di un ruolo attivo di guida da parte del medico per evitare errori che avrebbero compromesso la validità della tecnica (Schultz, 1993).

Già alcuni allievi di Schultz (Langen, Prokop, Strotzka), proponendo il Training autogeno nelle cliniche e secondo schemi appositamente modificati, hanno optato per la conduzione dei primi esercizi da parte del medico che recitava le formule, proprio per evitare possibili incidenti “che si verificano più spesso nelle circostanze in cui, secondo le indicazioni di I. H. Schultz, viene osservato da parte del medico l’assoluto silenzio, piuttosto che in quelle in cui, secondo il metodo preferito nelle cliniche, la formula viene recitata durante i primi esercizi dal medico” (Wallnöfer, 1989).

Questo fa ritenere che l’autogenia, il lasciare che accada, la piena spontaneità, siano l’obiettivo, la mèta da proporre alla persona, che viene accompagnata a raggiungerla, affiancata nella ricerca del suo personale equilibrio bionomico.

In questo senso si può affermare che il Training autogeno è “un metodo eterogeno che diviene autogeno successivamente” (Wallnöfer, 1978).

È un processo che permette all’individuo di appropriarsi gradualmente di un metodo psicologico trasmessogli da un esperto della materia. Come in ogni apprendimento, anche qui l’intermediario (in questo caso l’esperto) diventa superfluo alla fine del processo (Hoffmann, 1980). Il soggetto si rende sempre più indipendente nel controllo della propria situazione di vita. Avviene una riscoperta di capacità che erano andate perse durante la propria evoluzione  personale, si raggiunge progressivamente la capacità di sviluppare alcune potenzialità non sfruttate o abbandonate e che vengono riacquistate, migliorando l’autodeterminazione individuale.

Il ruolo attivo del terapeuta in un percorso con le tecniche autogene solleva la questione dell’eterosuggestione, che si pone in contrapposizione con i principi base dell’autogenia. Del resto è noto il cammino che ha condotto Schultz dall’ipnosi al Training autogeno, centrato molto sulla necessità di favorire l’autonomia del soggetto.

Più volte Schultz ha ribadito che il parlare durante l’esercizio è un annullamento del principio autogeno di base. “Ma le eccezioni a questa regola non sono rare”, se si cerca di individuare la modalità che sia maggiormente utile al soggetto e rispondete alle sue caratteristiche personali. Per gli individui di tipo acustico, ad esempio, l’ascolto delle parole ha spesso un effetto positivo; così come nelle prime sedute l’espressione linguistica assunta dalle formule dell’esercizio consente di trasmettere un modello di allenamento. Hoffmann riconosce l’utilità nelle prime sedute di pronunciare le formule a bassa voce. “La voce delicata che può essere usata all’inizio nel pronunciare le formule, si trasforma molto presto in un mormorio, per scomparire poi completamente. Una volta avvenuta questa mediazione (unica) non bisogna più parlare” (Hoffmann, 1980).

Del resto il ruolo guida del conduttore si riferisce esclusivamente all’insegnamento iniziale delle formule e specificatamente alle formule inferiori del Training autogeno.

Le problematiche relative alle varie forme di suggestione, della loro comparsa e dei loro effetti devono essere adeguatamente conosciute e correttamente gestite. Per questo sia Schultz sia i suoi allievi hanno ripetutamente affermato che il Training autogeno va insegnato da personale esperto e preparato, in grado cioè di riconoscere ed elaborare le dinamiche collegate al transfert e controtransfert, proprio perché l’obiettivo è l’autonomia dell’individuo e la sua capacità di auotogoverno della propria vita.

Come afferma Peresson, non bisogna lasciarsi influenzare ed ingannare dalla apparente semplicità della tecnica. Infatti ci si può trovare di fronte a situazioni inaspettate, a reazioni incontrollate, a manifestazioni somato-psichiche molto serie. “Solo chi ha approfondito il Traning da un punto di vista scientifico e si è venuto nel tempo coscienziosamente preparando, può intraprendere con successo l’uso terapico dell’allenamento autogeno” (Peresson, 1990).

L’attenzione del conduttore va di pari passo rivolta ad un duplice punto di riferimento costante: da una parte le indicazioni formative e didattiche secondo le intenzioni e l’impostazione di Schultz, e dall’altra quanto è richiesto dalle più avanzate acquisizioni scientifiche e dalle diverse applicazioni in ambiti clinici e non.

“Fortunatamente, infatti, e a dimostrazione dell’attualità di questo metodo, il Training autogeno continua a essere oggetto di modifiche e miglioramenti. Se così non fosse, ben presto dovrebbe cedere il passo a un nuovo metodo basato sulle più recenti evidenze scientifiche” (Lindemann, 2003).

Opportune modifiche, ad esempio, sono necessarie quando si utilizza il Training autogeno con i bambini. La presentazione, la motivazione e la didattica della tecnica devono tener conto delle particolari caratteristiche del bambino, assicurando modalità (come esemplificazioni, utilizzo di immagini, atteggiamento di empatia) e forme di guida da parte dell’operatore, soprattutto con i più piccoli e nel primo periodo (Peresson, 1990 e Hoffmann, 1980).

Si potrebbe fare riferimento anche all’applicazione in altri ambiti non clinici, come lo sport, il lavoro, la scuola, ma soprattutto all’insegnamento della tecnica durante i corsi con più partecipanti, per comprendere come la metodica possa essere adeguata opportunamente alla situazione e alle persone a cui viene proposta, senza uscire dalle indicazioni originarie di Schultz ma favorendo una migliore assimilazione della tecnica, che gradualmente potrà essere personalmente utilizzata nel pieno rispetto dell’autogenia.

Approfondendo il problema della suggestione, Bernt  H. Hoffmann ammette che il Training autogeno, pur essendo un metodo di allenamento autodistensivo, non può mai essere libero da influenze esterne.

L’apprendimento del Training autogeno non può avvenire senza eterosuggestioni soprattutto all’interno di un corso: le comunicazioni, i commenti sulle posture e sulle formule, le immagini simboliche a carattere didattico, l’eseguire o il far eseguire l’esercizio davanti ai partecipanti, la dimostrazione verbale delle formule eseguita dall’operatore prima e durante l’esercizio.

Le eterosuggestioni nella fase di insegnamento/apprendimento della tecnica sono presenti, sia che queste vengano percepite o meno dai partecipanti e dall’operatore stesso, sia che vengano applicate sistematicamente e assunte coscientemente o meno dal soggetto in allenamento. Non si tratta quindi di stabilire se è avvenuta una suggestione, ma di determinare il grado di intensità e le modalità di influsso che esercita sul soggetto, elaborandola opportunamente e contestualizzandola nel percorso verso l’autogenia.

Hoffmann offre anche alcuni suggerimenti per ostacolare la deviazione verso la passività nei confronti del conduttore o verso un’ipnosi di gruppo:

  • la scelta delle parole: utilizzando la forma personale “Io”, che viene ripetuta interiormente dal paziente;
  • il carattere didattico degli esercizi di gruppo, sottolineando l’importanza degli esercizi da fare a casa;
  • il colloquio e il commento sugli esercizi presentati, accentuando la realizzazione autogena;
  • la realizzazione del protocollo individuale che permette un lavoro soggettivo e un’analisi dell’apprendimento e dell’andamento dei disturbi (Hoffmann, 1980).

Con questi accorgimenti appaiono maggiormente controllabili gli effetti della suggestione, così da rendere compatibile il carattere di autogenia con l’insegnamento del Training autogeno utilizzando coscientemente mezzi eterosuggestivi, spesso richiesti sia dalla scarsità di tempo a disposizione (ad esempio nei luoghi di cura o nei corsi di formazione in gruppo), sia dall’attenzione ad una corretta realizzazione delle formule nelle fasi iniziali.

Bibliografia

 

 

Hoffmann B. H., Manuale di Training autogeno, Astrolabio, Roma, 1980

Lindemann H., Training autogeno, Tecniche Nuove, Milano, 2003

Luban-Plozza B., Convivere con lo stress, Soleverde, Torino, 1992

Peresson L., Psicoterapia  autogena, Cisspat, Padova, 1990

Schultz I.H., Il Training autogeno, Feltrinelli, Milano, 1993

Schultz I.H., Psicoterapia bionomica, Masson, Milano, 2001

Selye H., Stress, Einaudi, Torino, 1957

Veggetti M., Opere di Ippocrate, Utet, Torino, 1976

Wallnöffer H., Psicoterapia con il Training autogeno, in Training autogeno – nuovi contributi ed esperienze cliniche, Cisspat, Padova 1978

Wallnöffer H., Anima senza ansia, Gli Archi, Torino, 1989

ROBERTO BARUZZO   

PSICOLOGO PSICOTERAPEUTA

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